Di muri, confini e porosità


Il 9 Novembre 1989 cade un muro che per quasi trent’anni è stato un confine fisico, sociale, politico e morale.

Tracciare un confine è un gesto istintivo: per distinguere l’interno dall’esterno, l’identità dalla differenza, la propria patria da quella straniera, il proprio pensiero da quello degli altri, per marcare il confine delle responsabilità, per proteggersi o per proteggere gli altri da noi stessi.

Esistono contesti lavorativi (tipicamente organizzazioni funzionali o a matrice debole) dove i confini tra i team funzionali sono ben definiti per volere degli stessi manager di linea, per un motivo lapalissiano: marcare il confine delle responsabilità.

Fortunatamente la vita non è solo bisogno di appartenenza ed esiste un’altra polarità fondamentale, quella dello “sconfinamento”. Lo sanno bene tutti coloro che son morti cercando di attraversare i muri: che sia quello di Berlino, di Gaza, del Messico o delle proprie paure, idee, convinzioni. Lo sa bene (e ce lo insegna Mattotti nel suo splendido "Fuochi") chi vive l'impossibilità d'insediarsi stabilmente dall'altra parte, laddove le cose sono esattamente come si sentono in maniera così acuta da poter distruggere.

Ecco perchè credo fortemente che la soluzione non sia riuscire a scavallare il muro di confine: la soluzione è a monte, nel costruire non muri ma confini porosi (come li chiama Massimo Recalcati nel suo “Lessico Civile”), unico modo per rendere possibile lo scambio continuo tra interno ed esterno. Un confine quindi che permetta la capacità di transito e di comunicazione.

Attenzione a non confondere confine poroso con confine liminale: quest’ultimo è uno spazio di sospensione che si trova tra due condizioni differenti e può facilmente diventare una trappola.



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