Team building, leadership e cultura di gruppo


Possiamo definire la cultura di un gruppo come l’ apprendimento condiviso e stratificato allorché il gruppo risolve i propri problemi di “adattamento esterno” e di “integrazione interna” [ Edgar H. Schein]. Stratificato perché ha funzionato tanto bene da essere considerato valido, condiviso perché insegnato ai nuovi membri come il modo corretto di percepire, pensare e comportarsi.

La cultura di un gruppo così intesa va pertanto a formare un sistema di credenze, valori e norme comportamentali che vengono dati per scontati ( assunti di base) e quindi non risultano più accessibili alla coscienza: è ciò che porta un gruppo a comportarsi d’istinto in maniera uniforme, un po’ come uno stormo di uccelli che reagisce all’attacco di un falco.

Quindi per una corretta e completa formazione e coesione dell’identità del gruppo deve stabilizzarsi una struttura di credenze e valori che “diano significato” alle attività quotidiane: senza un significato le azioni del gruppo restano incoerenti e sconclusionate. Il dare per scontate credenze e valori permetterà al gruppo di essere ben organizzato a livello interno e quindi di avere successo nel raggiungere il proprio scopo. Ma il lavoro sarà completo solo quando il senso di identità del gruppo comprenderà anche la componente esterna.

Le componenti interne ed esterne non devono necessariamente coincidere (per quanto eccessiva distanza tra le due sia sintomo di “scheletri nell’armadio”) ma ogni membri del gruppo deve almeno essere allineato su entrambe.

Il gruppo da solo però non è in grado di svolgere questi compiti di “adattamento esterno” e “integrazione interna” senza un leader. In questo ci viene in aiuto sia il modello di formazione del team di Tuckman (forming, storming, norming, performing) sia lo studio sugli stili di leadership situazionale di Blanchard (directing, coaching, supporting, delegating). I due modelli richiedono però che gli stili di leadership, proprio perché “situazionali”, vadano applicati a due livelli: al team a seconda della fase in cui si trova e, all’interno del team, alla singola persona a seconda di competenze, motivazione e personalità dell’individuo. Un unico stile per tutto e per tutti è quindi un “silver bullet” che esiste solo nelle favole per uccidere i vampiri.

E difatti, a voler citare Drucker, “sull'assunto errato che dovrebbe esserci un solo modo di gestire le persone, si regge in maniera instabile l’intera letteratura sulla gestione dei collaboratori”, e questo assunto è non solo lontano dalla realtà ma anche pesantemente controproducente. Questa affermazione è del 1999, nonostante Maslow già a fine degli anni ’60 dimostrò in modo incontestabile che persone diverse vanno gestite diversamente. Anzi, aggiunge sempre Drucker, “le persone non si gestiscono: il vero compito delle risorse umane è di guidare i collaboratori”.

A complicare le cose, dobbiamo considerare che esistono anche due forme di leadership necessarie per una performance di gruppo sul lungo periodo: un “ leader del compito” e un “ leader socio-emotivo” [Bales e Slater]. Contrariamente a quanto si pensava fino a una ventina d’anni fa, le performance di successo e l’apprendimento efficace dipendono fortemente dal non separare queste due dimensioni, costringendo quindi il leader ad assumersi entrambi gli impegni (di compito, quindi tecnico, e di team-building, quindi sociale) e a pensare al gruppo come a un unico “sistema socio-tecnico”, nei quali l’interno e l’esterno sono integrati.

Nel fare questo, sia il leader che i membri del gruppo, devono necessariamente accettare quella che Amiel già a metà del 1800 chiamava “ disuguaglianza del valore”, che ha dato una grossa picconata al “ principio astratto dell’uguaglianza a tutti i costi, che dispensa l’ignorante di istruirsi, l’imbecille di giudicarsi, il bambino di essere uomo e il delinquente di correggersi”. Col rischio di sembrare arroganti agli occhi poco esperti in materia di leadership, Amiel si batteva fortemente per il diritto a riconoscere “ la disuguaglianza di valore, di merito, di esperienza “, cioè la fatica individuale di chi studia di più, di chi riesce di più, di chi lavora meglio e soprattutto di chi ha più esperienza e maggiori competenze. Disuguaglianza di valore che non vuole alimentare nessuna guerra tra “junior vs senior” o “bravi vs cattivi” ma che supporta però la leadership situazionale di cui sopra: nessuno deve essere trattato con disprezzo, ognuno merita una possibilità, ma compatibilmente con competenze e motivazione.

Dopotutto il rischio di non accettare questa disuguaglianza è dare linfa al Principio di Peter che costringe molte aziende a sopportare troppe persone che vengono promosse al loro massimo livello di incompetenza (ho scritto bene: INcompetenza). Dopotutto già Guareschi nel 1941, nel suo romanzo “La scoperta di Milano” faceva dire al direttore di un giornale: <<Visto che come correttore di bozze non funzionavate vi ho promosso cronista; visto che come cronista non andavate vi ho promosso redattore capo. Ora, dato che neppure come redattore capo voi funzionate, io mi trovo in questa imbarazzante alternativa: o licenziarvi, o darvi il mio posto di direttore.>>

Per valutare il proprio team non è sufficiente quindi che il leader faccia affidamento solo sul “comportamento manifesto” dei suoi membri: la definizione di cultura data all’inizio di questo articolo enfatizza infatti il fatto che gli assunti condivisi hanno a che fare con il modo in cui “percepiamo, pensiamo e sentiamo” le cose. Il comportamento manifesto è infatti sempre determinato sia dalla predisposizione culturale sia dalle contingenze situazionali: gli “artefatti” che ne derivano (ovvero, il comportamento che osserva una persona esterna al gruppo) sono difficilmente decifrabili. E non basta andare oltre questo strato epidermico: per arrivare agli “assunti” di base sottostanti (ovvero, le credenze e i valori inconsci e dati per scontato) è necessario attraversare anche lo strato dei “valori dichiarati” (ovvero, ideali, obiettivi, aspirazioni e ideologie di cui abbiamo coscienza) e che sono i soli che ci permettono di rispondere alla domanda “perché facciamo quello che facciamo?”. Purtroppo però questi valori dichiarati non sempre sono congruenti tra di loro né devono necessariamente esserlo con il comportamento istintivo dovuto agli assunti e con il comportamento visibile riscontrabile dagli artefatti.

La mancanza di una cultura di gruppo condivisa e di una leadership ha il suo opposto, che nel 1972 Janis e Mann identificarono come “ sindrome del pensiero di gruppo”, ovvero un modello comportamentale riscontrato nella maggior parte dei gruppi “ apparentemente” di successo: tendenza a decisioni (e risultati) di qualità estremamente scadente, incoscienza della situazione reale, allontanamento dalle realtà circostanti. Le cause principali sono una mancanza o scarsa comunicazione all’interno della squadra e tra la squadra e il resto del mondo.

Le condizioni perché questa sindrome si verifichi sono insignificanti se considerate una ad una, ma la combinazione è deleteria:

* la squadra è ben unita e ama lavorare insieme

* il leader della squadra è forte e la squadra lo segue alla cieca

* la squadra non lascia spazio né a critiche esterne né a critiche interne

* il team non considera piani alternativi

* c’è una pressione per prendere decisioni rapide

In queste condizioni, il team è pervaso da un orribile autocompiacimento, tutte le minacce vengono respinte, molto spesso usando il silenzio per indicare il consenso e le persone possono auto-nominarsi casualmente come i guardiani del pensiero comune e scoraggiare dissenso o dubbi individuali. Questa situazione è mantenuta viva da una pressione per la squadra di concordare pacificamente su tutto, al punto in cui la realtà diventa scomoda.

Assomiglia molto alla soluzione di Bill Pilgrim nel capolavoro di Kurt Vonnegut “Mattatoio n.5”: l’eroe non è stato in grado di gestire i fatti della realtà, quindi ha dovuto inventare una realtà completamente nuova che poteva affrontare.

Si possono facilmente immaginare le conseguenze di questo approccio in un progetto: le decisioni diventano sciatte, i rischi vengono trascurati, il team si siede comodamente intorpidito nel suo piccolo mondo e le cose iniziano ad andare male.

È il concetto di “ validazione sociale”, quando cioè credenze e valori vengono confermati solo dall’esperienza sociale condivisa del gruppo, dove i membri si rafforzano l’uno con l’altro e quelli che non accettano tali credenze e valori vengono scomunicati e ostracizzati. Il problema è che queste credenze e valori funzionano solo perché riducono l’incertezza nelle attività del gruppo, non perché siano efficaci, e non li si potrà mettere in discussione anche se non si riesce oggettivamente a correlarli con l’effettiva (cattiva) performance. Questo perché valori e credenze dichiarate riflettono il comportamento desiderato ma non quello osservato.

Ma se pure riusciamo ad andare oltre gli artefatti, se pure ignoriamo i valori dichiarati, l’accesso agli assunti di base non ci assicura che anche questi siano coerenti con le performance: dal momento che è difficile riesaminare i nostri assunti, per evitare l’ansia di questo cambiamento il gruppo tende a percepire gli eventi che lo circondano come congruenti con gli assunti stessi, anche se ciò significa distorcere o negare ciò che succede intorno a noi.

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