Un amore sintetico
[Si lo so, c'è già un sequel di Blade Runner, e mi è anche piaciuto, ma questo mio sequel lo scrissi molti anni prima del film di Villeneuve, quindi vinco io 😊]
Alla fine Rachel era rimasta più a lungo di quanto egli avesse sperato, eppure non abbastanza. L'avesse avuta accanto fino alla morte, non gli sarebbe comunque bastato: l'aveva conosciuta quando il conto dei propri giorni in vita era vicino al giro di boa e il viaggio fin lì, quattro anni prima, gli era sembrato un'attesa che ignorava di star subendo. Quelli che seguirono furono anni vissuti alla giornata, un po’ come mettere al buio un piede avanti l’altro e accorgersi tardi del passo di troppo.
Non sapeva quanto Rachel fosse speciale, né se lo fosse. Ignorarne la data d’immissione rendeva vano ogni tentativo di scoprirlo, costringendolo a subire un’altra attesa che si sarebbe volentieri risparmiato. Se anche lei fosse stata come gli altri replicanti – con una durata limitata a quattro anni – non ci sarebbe stato comunque modo di rallentare il processo d’invecchiamento delle cellule. E ignorarne il ritmo d’avanzamento rendeva tutto più complicato. Allora era come sapere di dover ricevere una pallottola in pieno cuore senza avere il privilegio di poterne sentire lo sparo. Non che ci fossero giubbotti antiproiettili a poter far da scudo.
Rachel viveva questa condizione con naturalezza: la sua carne sintetica non toglieva valore alle azioni di un corpo che lei aveva sempre creduto umano e che umano rimaneva per lui, poiché era in grado di procurargli brividi reali al pensarlo, al toccarlo, al possederlo.
La fuga da chi avrebbe dato loro la caccia a ogni costo, terminando lei e imprigionando lui, li portò fino ai territori di confine, dove un passaggio per le colonie extramondo gli costò la macchina Voigt-Kampff e i pochi crediti rimasti in tasca. Non ebbero facoltà di scelta e la speranza di ritrovarsi su una colonia in pace svanì alla luce dei bagliori che videro all'orizzonte, quando mossero i primi passi faticosi su quel pianeta dalla gravità leggermente superiore a quella terrestre. Per obbedienza alle leggi fisiche, ogni lampo era seguito da un boato talmente potente da sconquassare le viscere dall'interno: il suo primo pensiero fu per il corpo gracile di lei, che credeva incapace di assorbire tanta devastazione, un po' come un cristallo che va in frantumi sotto i colpi di frequenze in risonanza.
Eppure Rachel dimostrò di avere una pelle più coriacea di un armadillo: la sua determinazione a limitare i danni nei corpi dilaniati dei soldati – nell'unità ospedaliera in cui trovarono rifugio ai margini della zona di guerra – era un fuoco alimentato dalla consapevolezza di non sapere per quanto tempo ancora avrebbe potuto farlo. Era come se volesse compensare la presunta brevità della sua vita con il numero di quelle da salvare.
Non vi erano ruoli definiti per chi, come loro, era clandestino su un mondo in cui la guerra uccideva vite a un ritmo maggiore di quante se ne riuscissero a salvare: chiunque aiutava come poteva, per quel che sapeva, e se non sapeva imparava. Ogni giorno, a ore inaspettate, arrivava un numero di feriti sempre troppo alto per le mani dei pochi chirurghi, per le braccia stanche delle infermiere e per le poche medicine rimaste. Lui stesso, che fino al giorno prima si guadagnava il pane ritirando corpi sintetici, aveva dovuto imparare a rimettere insieme corpi di carne sanguinante, con un risultato non troppo distante da quello di un bambino che ricuce il braccio dell'orsetto di pezza con ago e filo della madre.
Se Rachel era a suo agio in quell’inferno, lui sentiva incombente sulla propria testa la spada di Damocle che gravava su quella di lei. Più di quanto fosse necessario. Ne era cosciente al punto da domandarsi spesso se fosse maggiore la pena per lei, che avrebbe concesso la sua bellezza troppo presto a un Paradiso digitale, o per se stesso, che sarebbe rimasto solo e incapace a farsene una ragione. Non riusciva neanche a maledirsi per quella scelta: se n'era innamorato ancora prima di farle il test e comunque pentirsene avrebbe significato tradire entrambi. Non gli restava altro che aspettare. Nel frattempo vivere. Se poteva quella chiamarsi vita.
Intanto cercava in lei ogni possibile segno di decadenza che facesse presagire l'inizio della fine. Questo logorava la sua anima più di quanto il duro lavoro al campo gli logorasse il corpo. Non riusciva a rendersi libero da questa catena psicologica. Rachel in questo era più forte, al punto da porgli un veto sull'argomento.
«Capisci» gli disse un giorno, esasperata dalle sue paranoie, «che io non posso vivere in funzione della mia morte?»
«Ma sono io che non riesco a vivere in questa attesa».
«Ma guardati intorno!» lo interruppe con una rabbia che traspariva in rosso sulle guance altrimenti pallide. «Guarda dove siamo finiti: credi forse che sia più alta la probabilità di un mio decadimento entro le prossime ore o che una bomba ci spazzi via prima ancora che tu possa calcolare la probabilità di un altro giorno insieme?»
«Io non calcolo probabilità».
«Era una metafora!»
«Questa invece è la vita vera e non c’è spazio per i concetti astratti».
«Hai ragione!» lo schernì, la bocca ad atteggiarsi in una smorfia di disprezzo. «Le metafore poi sono pericolose. Con loro è meglio non scherzare. Da una sola metafora può nascere l'amore».
«Non citarmi Kundera, tantomeno con quel tono passivo-aggressivo. Io ti amo, e voglio proteggerti».
«Tu mi compatisci e non puoi proteggermi dalla mia natura come non puoi farlo facendomi scudo con il tuo corpo da queste bombe al plasma. La tua pietà mi ricorda come io sia diversa e comincio a dubitare se quello che tu chiami amore non sia altro che il prezzo che ti sei imposto per tutti quelli come me che hai ritirato prima d’incontrarmi».
«Adesso sei meschina, sai bene che non è vero».
«Sai bene che non puoi saperlo, invece! Sai bene che...»
Furono interrotti dall’allarme che annunciava un nuovo carico di feriti, molti con un biglietto di sola andata. In quelle occasioni la necessità di lavorare insieme – e bene – metteva in ombra quei livori che venivano poi abbandonati sotto ore di fatica. Era come se il loro corpo fosse gravato dalla responsabilità di tenere in vita uomini che avrebbero forse preferito essere lasciati a pezzi, piuttosto che assomigliare al collage di uno scienziato pazzo. Erano ore frenetiche in cui non c’era spazio per i problemi personali. Non c’era spazio per i morti, che venivano subito inceneriti. Non c’era spazio per i vivi, che cercavano di limitare i morti. Non c’era spazio per la vita, in quelle stanze colme di morte al punto da entrarti dentro per osmosi. E ci restava così incollata da dover imparare a conviverci. Alcuni invece la estirpavano a caro prezzo, con un palliativo fatto di alcool o di sesso a pagamento. Soluzioni per gente di bocca buona, perché c’era poco da esser schizzinosi: se andava di lusso si trovava merce dal pianeta Terra, altrimenti ci si beccava la solita robaccia sintetica. Robaccia in entrambi i casi, a voler essere onesti.
Eppure se tutti schifavano quel surrogato di whisky che lasciava in bocca un retrogusto di petrolio, c’era chi il sesso lo preferiva artificiale. È per questo che lui doveva tenere Rachel sotto sorveglianza assidua, e quando non poteva in prima persona doveva affidarsi a quei pochi che nutrivano la sua fiducia. Era già successo che qualche scellerato avesse provato a violentarla. Per quanto avessero tentato di tenere segreta la sua natura, le voci avevano cominciato a circolare anche troppo presto, e il prurito di certi ceffi, che altrimenti avrebbero pagato in crediti per attingere a un ricco catalogo nei bassifondi della città, alimentava il loro impegno a confermare o confutare il dubbio sulla veridicità di quelle stesse voci.
«Sei così bella...» le disse quella sera: era il massimo che poteva concederle dopo ore di duro lavoro. Lei non apprezzò la banalità di un complimento che usurpava il posto a una sana scopata. Avrebbe voluto essere presa senza avere l’opportunità di reagire. Avrebbe voluto essere penetrata da dietro, la faccia al muro, le unghie a infrangersi contro la parete d’acciaio, i liquidi a colarle giù dalle gambe aperte. Non sopportava più quello che lui era diventato: un fuggitivo romantico e disperato, intrappolato tra l'attesa di perderla e la necessità di vivere. «Lo so...» rispose lei in tono di sfida: l'insicurezza di un tempo, dettata dalla mancanza di pratica alla vita, aveva fatto posto a una coscienza di sé che rasentava l'arroganza. I ruoli si erano trasformati e da donzella inerme, il cui destino era nelle mani del prode cavaliere, era diventata l'aguzzina di un uomo alla mercé della paura di restare solo.
L’apatia con cui Rachel aveva speso i suoi giorni sulla Terra, portando una maschera di carne che lei credeva la sua vera natura, aveva lasciato il posto a una sete d’emozioni che trovava una fonte prosciugata nella vita monocorde in cui egli si trascinava. Una donna che s’annoia è una donna che va via. Lei era sulla soglia, combattuta tra la voglia di trovare un motivo per restare e la necessità di trovarne uno per andar via. Se fossero più forti le necessità dei motivi del cuore, lo ignorava.
Di contro, egli aveva ben inteso che aveva da temere non tanto il cancro che – come una bomba a orologeria di cui si ignorava il tempo d’innesto – era stato, forse, geneticamente scritto nelle cellule di lei per motivi deontologici che entrambi non condividevano, quanto piuttosto le conseguenze che esso stava avendo sul loro rapporto: non l’avrebbe infatti persa per morte certa in data incerta, ma per l’umana natura dei sentimenti che muovevano quel corpo di donna che d’umano aveva solo l’apparenza.
Entrambi però peccavano nell’incapacità a comprendere le responsabilità reciproche, frutto di scelte egoistiche mascherate da altruismo. Perché se egli s’era arrogato il diritto di rivelarle la sua natura artificiale – ignorandone il grado di voluta imperfezione – al solo scopo di vendicarsi del conflitto interiore tra la probabilità che lei potesse ricambiarlo e l’incapacità a ritirarla, Rachel era pur passibile di superficialità per non aver considerato che l’incertezza sulla durata dei suoi giorni era un peso che nessuna mente umana avrebbe potuto sopportare.
«Dovrei trovare la forza di lasciarti andare » le disse, giocandosi una carta ben troppo scontata.
«Che ironia! Per quante ragioni io possa darti per voler andare, tu non sei in grado di darmi un solo motivo per restare».
«Dovrebbe bastarti quello che t’ha spinto a seguirmi».
«Dovresti capire allora che sei cambiato in qualcosa che io non amo».
«E allora vattene!»
«Non cerchi neanche di trattenermi?»
«Dovrei?»
«Dovresti almeno aver voglia di provare».
«Dovresti almeno aver voglia di restare».
«Dovremmo smetterla di elencare quel che dovremmo fare e concentraci su quel che vogliamo fare».
«Bene, appurato che il condizionale dei nostri doveri lo sappiamo coniugare, possiamo passare a una lezione sull’imperativo dei nostri desideri».
«Beh io non so che cosa voglio!»
«Beh io so quello che voglio, ma non lo posso avere, e lasciarti andare è quello che dovrei, ma non voglio».
«Buon Dio! Voi uomini siete così complicati...»
«Noi uomini o noi umani?»
Non provò neanche a scusarsi o a rimediare quando lei, negli occhi rabbia e delusione e disapprovazione, lasciò la stanza con il passo di chi non ha intenzione di tornare. Non c’era altro da dire, altro da dover fare, perché tutto il necessario era stato detto, era stato fatto. Lui le aveva fornito il motivo che lei cercava per andarsene con la coscienza pulita di chi lo fa per dolorosa necessità e non per volontà. Di contro Rachel lo aveva spinto a darle l’opportunità di abbandonarlo senza plausibili spiegazioni. Si erano forniti a vicenda l’alibi alla loro vigliaccheria, per scoprire troppo tardi di avere invece ingerito troppo presto il veleno davanti alla morte apparente dell’amato.
Sarebbe forse bastato a Romeo accostare al petto di Giulietta l’orecchio con maggiore cura, per insinuare il dubbio che avrebbe salvato la vita a entrambi, a dimostrazione che la certezza, in amore, è l’origine delle migliori intenzioni che inducono alle peggiori azioni. Ma l’amore teme il dubbio, e tuttavia può crescere solo attraverso esso. Una contraddizione in termini che né uomo, né macchina, né androide – come rappresentante in un solo corpo di entrambi i mondi – riuscirebbe mai a sciogliere.
Alla fine Rachel era rimasta più a lungo di quanto egli avesse sperato, ma non seppe mai se e per quanto ancora restò in vita: non tentò di scoprirlo e fece in modo di non saperlo. La certezza della sua morte avrebbe alimentato il rimorso per averle mostrato una vita che non avrebbe vissuto a pieno, mentre il dubbio gli lasciava il rimpianto di averla amata più di quanto lei avesse meritato.

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