Symlife


Sei appoggiato con le spalle al muro, il respiro è affannato, le gambe molli per il calo di adrenalina. Ancora cauto sullo scampato pericolo, e sudato in questa tuta pressurizzata, devi asciugare in continuazione il visore a infrarossi che ti ha appena salvato la vita. Attendi impaziente l’elevatore che dovrebbe portarti all’hangar d’atterraggio dove, con buona probabilità, quel che resta della tua navicella dovrebbe essere sufficiente a portarti via da questa base spaziale persa nel buco del culo dell’Universo (ci sta una frase da film di serie B).

Il dling!, accompagnato dalla luce verde, ti sveglia da un torpore in cui non saresti dovuto cadere. Il cuore riparte a mille come un cavallo da corsa alla prima frustata. Fai volteggiare l’arma a trecentosessanta gradi cercando di coprire tutto lo spazio tridimensionale nel minor tempo possibile per assicurarti che il corridoio sia libero, che l’elevatore sia libero e che dal soffitto non arrivino sorprese. Confermi a te stesso che sei ancora in grado di reagire agli imprevisti con dovuta prontezza.

Il ronzio digitale del quadro comandi s’illumina a intermittenza, rassicurandoti che in tempi brevi sarai sceso a livello hangar. La mappa olografica – fornita in tempo reale per gentile concessione del sistema centrale con cui sei interfacciato grazie al lavoro di un hacker pagato a caro prezzo prima di iniziare questa fottutissima missione – ti indica una distanza di cento metri da dover percorrere verso destra, una volta fuori, prima di raggiungere la piattaforma di lancio, riducendo le probabilità di salvezza di una percentuale aleatoria definibile più comunemente come fortuna, caso o qualsivoglia.

Le informazioni radio ti giungono con intermittenza irregolare, ma non gli poni attenzione diretta, in quanto il sistema di riconoscimento vocale è programmato per trasmetterti, in caratteri flottanti davanti gli occhi, i messaggi che contengo le parole chiave per cui è stato programmato. L’esperienza però ti ha insegnato a star comunque all’erta come procedura di backup, e la pratica ti ha educato ad ascoltare a livello inconscio quello che potrebbe sfuggire all’occhio.

Cento metri: la tua salvezza è alla distanza che un qualunque atleta allenato sarebbe in grado di coprire in una media di dieci secondi ma senza tuta, senza armi e soprattutto a riposo. Cento metri in cui dovrai correre e guardarti intorno e tenere d’occhio il visore, ascoltare le informazioni radio, in cui dovrai reagire a ogni stimolo esterno anche se fosse un falso allarme perché non hai tempo per valutazioni sul rischio, anche se sai che reagire a un falso positivo potrebbe distrarti dal nemico vero.

La sfortuna ti ha lasciato a disposizione un’arma potente a sufficienza da far fuori tre nemici in un colpo solo, ma è appunto una e non basta se verranno ad attaccarti da ambo i lati, a dimostrazione di come a volte la superiorità numerica sia più efficace della potenza di fuoco. Ti è vano anche calcolare le probabilità di attacco da destra o da sinistra, non hai elementi sufficienti: gli infrarossi non funzionano attraverso queste pareti, il rilevatore di prossimità è fuori uso da tempo e dover correre verso destra è condizione solo necessaria ma non sufficiente a uscirne vivo.

Ecco, la porta si apre, per istintivo ti butti in avanti con una capriola seguita da una rotazione a centottanta, i punti di riferimento si invertono e per un attimo sei disorientato: era a destra che dovevi correre, prima, a sinistra ora. Non puoi pensare, agisci, volti la testa a destra ma il corpo è lento nell’andarle dietro, l’inerzia dell’arma lo rallenta. Nello stesso istante indietreggi verso il punto che era alla tua sinistra ma che prima di venir fuori dall’elevatore era alla tua destra. È libero davanti a te, nessuno (o nulla…) in arrivo: con un movimento di roto-traslazione a centottanta gradi riesci a coprire prima il soffitto e poi a puntare dritto verso la navicella, con ottanta metri che ti restano davanti, e corri, corri, corri.

Settanta, sessantacinque, cinquanta. Non dovrebbero esserci porte o imbocchi fino alla piattaforma di lancio, non puoi permetterti di controllare ancora il soffitto: devi fare affidamento solo sulle tue forze, sulla tua velocità, sulla fortuna. Corri con le gambe stanche, il fiato corto, il sudore che ti sfoca la vista. Corri con il dito sul grilletto, inutilmente perché se dovesse pararsi davanti una di quelle cose nel farla fuori rischieresti di far saltare anche la navicella che è lì a venti metri, quindici, dieci, cinque, sei dentro!

Sei dentro, ce l’hai fatta, o almeno quasi: devi chiudere il portellone, far partire le procedure d’avvio dei sistemi prima, dei motori dopo, inviare i comandi di richiesta apertura hangar nella speranza che i codici funzionino altrimenti dovrai tornar là fuori ad aprirti un varco a colpi di raggi laser, plasma, ioni o qualunque altra diavoleria abbia a disposizione l’arma che ti porti dietro. E sì, i comandi in questo futuro di merda sono vocali, ma in una lingua che conosci poco e che pronunci peggio.

Tlac! un rumore di serratura che s’apre. Cazzo, cazzo, cazzo. Imbracci l’arma, hai ancora un paio di minuti per controllare prima che sia tutto operativo. No, questa no, con questa ci fai un cratere nello scafo, la getti incurante come un peso inutile. Pensa, pensa, deve esserci un’arma di calibro più piccolo adatta all’uso che avevi nascosto, ma dove, dove? Clang! un rumore ancora e poi le luci si spengono. No, no, no, non è possibile, torni indietro a memoria verso la cabina di pilotaggio, ti lasci guidare dai ricordi e dall’istinto – una combinazione che sa d’ossimoro – ma girato l’angolo la luce che t’abbaglia non è del quadro comandi ma del raggio che ti colpisce in pieno petto.

«Ragazzi chiamate vostro fratello, è pronta la cena!»

Sono ore che non lo vedono, rintanato giù in cantina come un topo. I due gemelli, tra spintoni e risa, si precipitano giù dalle scale in una gara che ha il solo scopo di stabilire chi di loro dovrà dar noia al fratello maggiore: in queste loro sfide giornaliere c’è sempre un vincitore – grazie a uno sgambetto, una finta, un piede in fallo, un ostacolo inaspettato – ma stavolta dovranno contendersi il premio, perché entrambi s’arrestano a guardare il fumo che vien su dalla poltrona che dà loro le spalle.

«Tuo fratello s’è addormentato con la sigaretta accesa!»

«Non chiamarlo mio fratello, è anche il tuo!»

«Beh, vallo a svegliare prima che prenda fuoco insieme al tutto il resto!»

«Fossi matto! Lo sai bene com'è scontroso quando lo si sveglia».

«Due punti forza...»

«Cosa?»

«Ti regalo due punti forza a Symlife se ci vai tu».

«Ma smettila! Va' a svegliare nostro fratello».

Il piccoletto controvoglia s’avvicina timoroso, con la mano afferra lo schienale e lentamente gira la poltrona che gli svela suo fratello che sì fumava, ma da un buco nel petto grande come il cocomero che la madre aveva promesso loro per il dopo cena, il casco della realtà virtuale ancora in testa…

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