Al solito posto
La pioggia battente di questa domenica pomeriggio slava i toni caldi di un autunno che si attarda sulla soglia dell'inverno. Mentre a passo lento torno a casa, lascio che la pioggia faccia il suo dovere, nella speranza che lavi via i rimorsi, troppi, ma salvi i pochi rimpianti.
Il maltempo sembra obbedire alla leggi dell’osmosi inversa: le strade sono semi-deserte e i locali affollati. Il flusso di avventori è paragonabile a quello delle grandi migrazioni di mammiferi spinti dall’istinto di sopravvivenza. Solo un pazzo si butterebbe in quella mischia di sudore e alcool, di fumo e feromoni. Solo uno sciocco resterebbe fuori a prendersi un malanno. Tra i due mali stavolta scelgo il secondo, certamente il peggiore, ed è una scelta che ho il diritto di non giustificare.
Giungo a casa con un fardello di pensieri che, pregni d’acqua, gravano su anima e corpo in egual misura. Apro la porta d'ingresso: la fotografia con te in primo piano è al solito posto, e mi domando per quanto tempo ancora la lascerò lì, e se me ne libererò spontaneamente, prima ancora che un nuovo amore prenderà il tuo posto. Perché dicono che un’altra ci sarà, per istinti ancestrali legati a urgenze della carne. E forse non una, ma dieci e cento ancora.
Da soli non si vive. Non sei stata la prima, e non sarai neanche l’ultima, eppure sei stata l’unica ad aver avuto un posto d’onore nel mio cuore.
Sei stata speciale sin da subito. Gli altri lavori li ho sempre ricevuti in busta chiusa, in anticipo di qualche giorno, impossibile farsi coinvolgere. Nella busta una foto, formato standard venti per trenta, a colori, sul retro annotato luogo, giorno e ora. La tua invece è arrivata senza darmi tempo di riflettere. Al posto di data e ora solamente un “Oggi al più presto”.
Ora che ti guardo bene, mi domando come sarebbe stato se tu avessi peccato in bellezza. Non ho mai eccelso per originalità e profondità di sentimenti, eppure non accetto condanne d’ovvietà e mi domando quale direzione avrebbe preso la mia vita se mi fossi rimasta indifferente. Se mai possa aver senso una classifica dei propri errori, quali decisioni sarebbero state diverse e quante di esse meno sbagliate di quella che presi allora? Come tributo all’evidenza, la sola cosa che so per certo è che se non t’avessi incontrato ora non starei qui a piangere per averti perso. Per la seconda volta.
Chissà se avrò la forza di vivere la tua assenza con la consapevolezza di esserne la causa, essendomi negato anche il privilegio di mitigare l’amarezza con la speranza di riaverti.
A essere sinceri, questa foto non ti ha mai reso giustizia. Non te ne rende ora, anche se ha più corpo del ricordo che mi rimane di te. Ma forse ho scelto il ricordo sbagliato, quello più tenero, quello più dolce e trasognato del tempo in cui mi amavi.
Per ironia della sorte arrivasti inaspettata a colmare un vuoto che ignoravo, ma sei andata via creando un vuoto che amplifica l’eco di ricordi che non riesco ad allontanare.
Rammento ancora quando ti vidi per la prima volta, dall’alto di quei venti piani, accucciato dietro il parapetto. Eri nel tuo vestito a fiori, trasparente alla luce del sole, così eccitante. Mi innamorai di te nell’istante stesso in cui realizzai che mi avresti rovinato in ogni caso, costretto a scegliere tra la certezza di perderti, senza neanche averti, e l’incertezza di averti per non volerti perdere.
Si dice che le scelte su questioni di poco conto vadano pensate, e poi pensate ancora, e ancora mille volte, per poi lasciarle in sospeso nel limbo dell’indecisione: quelle importanti invece vanno prese sulla scia dell’istinto, come a mandar giù una tequila che dà sollievo alle labbra riarse dal sale. La mia la presi ancor prima di averne chiare le conseguenze, dettata da un cuore che, in bella mostra, batteva impavido ed emozionato come al primo appuntamento.
Tutto accadde in maniera necessaria: il click della custodia che si chiudeva, le scale scese d’un fiato, una scusa banale, “prendi un caffè?”, le mani, la tua bocca, una cena, i nostri corpi, i liquidi, i tramonti, il fuoco di un camino a gettare ombre lunghe sui nostri corpi nudi, gli anelli, la chiesa e il vestito bianco.
Non ci furono amici per il matrimonio, non ci fu concesso dal rischio, dovevo proteggerti dal mandante: solo un prete consenziente, due testimoni bisognosi di denaro e noi, al cospetto di Dio e del mondo intero, con la promessa di una vita nuova da recitare improvvisando.
Eravamo felici, nonostante le difficoltà che sapevamo avremmo dovuto affrontare, anzi il brivido a ogni rischio alimentava la sete a correrne di nuovi. L’adrenalina scorreva al posto del sangue, come una droga che fa bene, che provoca dipendenza ma non uccide.
Erano tempi in cui, nonostante tutto, pensavo che saresti restata, che avremmo condiviso a lungo la presenza su questa Terra, che ci saremmo riscaldati il cuore nelle giornate fredde d’inverno. La strada davanti a noi era sempre tortuosa, spesso in salita; raramente il destino ci ha concesso scorciatoie, anzi ha abbondato di biforcazioni prive di segnalazioni utili a prendere la direzione giusta. Ma siamo sempre andati avanti, senza guardarsi indietro. Poi invece la sterzata improvvisa del cuore.
In un mondo in cui ogni giorno era incerto, pensavo che tu, immobile come un cardine geometrico, fossi il centro fisso del mio universo, per scoprire all’improvviso che eri diventata il moto accelerato che, confrontato con la prima frizione, ha rallentato, si è fermato e infine ha frantumato.
Fu straziante scoprire che un amore può finire in anticipo, poco importa se marchiato dal fuoco della passione: l'intensità del vissuto non è mai un sostituto della sua durata. Siamo fatti di carne e sangue, di natura tangibile, eppure ci sentiamo morire se ci privano di quella necessità astratta che è l’amore. Allora perché soffrire in vita una morte fittizia quando la morte stessa ci può sollevare da ciò che abbiamo perso?
L’orgoglio avrebbe dovuto spingermi ad accusarti di aver giocato sporco, di avermi nascosto dubbi e incertezze, di non averne parlato con me per cercare di risolvere prima di distruggere. La verità era che avevo deliberatamente ignorato i sintomi di una fine che sentivo nell'aria: la percepivo dalla tua pelle che era sempre più tiepida, dal tuo sangue che scorreva sempre più lento, dalla tua carne che fremeva sempre meno. Era come una sensazione tattile: una mancanza di tensione al contatto con il tuo seno, un palpito in meno del tuo cuore, un sussulto più flebile del tuo petto nel momento dell'orgasmo. L'amore, che da pelle a pelle ci scambiavamo, smise di fluire dalla tua carne nella mia, e attendevo ignavo il giorno della consapevolezza: lo attendevo come una liberazione e un tormento assieme.
“Liberami!” ti gridavo in sogno, “Liberami da questa tortura!”. Tenevi il mio cuore sul pendio di un precipizio, e non sapevo se avresti mollato la presa o se me lo avresti rimesso in petto. La morte sarebbe stata preferibile all'attesa, ma mancava il coraggio d’invocarla per disfarmi di questo strazio.
Quando andasti via riuscii almeno a fare qualche tentativo: montai e smontai l’arma tremila volte e altrettante me la puntai alla testa, in bocca, al cuore, ma il coraggio mancava all’appello. A ogni prova di vigliaccheria seguiva un moto di rabbia verso un oggetto che t’apparteneva, a compensare la viltà con il rancore. Fossi stato capace di provare altrettanta rabbia mentre mi costringevi in quel limbo dell'anima, avrei potuto urlarti in faccia il mio risentimento che, giusto o sbagliato, avrebbe almeno provocato una reazione.
Avrei dovuto mostrarti le mie viscere contorte e sanguinanti invece di apparire indifferente. Invece non riuscivo ad agire, rallentato dal peso delle lacrime che, faticando a scendere, stagnavano tra anima e corpo, rendendo marce con muffe insalubri le fondamenta di un sentimento che, una volta gioia, mi tormentava.
In quella mia inerzia tu trovasti il tuo vantaggio. In un ambiente sotto zero ciò che si muove non congela: io ero invece fermo in mezzo alla tempesta, nudo, indolente a ogni straccio della mia carne che s’irrigidiva sotto le sferzate della neve.
La primavera mi svegliò da quel letargo troppo tardi.
A mente fredda, distinguo chiaramente la mia colpa più grande. Fino ad allora avevo corso sul ciglio del baratro guardando sempre avanti. Mi ero accorto tardi che non tenevi il passo e quando mi era stato palese il tuo timore, l’istinto di sopravvivenza aveva preso in me il sopravvento, sfociando nella paranoia. Ti avevo costretta prima a un cambio d’identità, poi a spostarci sulla costa opposta, dove un lavoro in nero malpagato aveva portato agli sgoccioli i nostri risparmi. L’idea che un camper fosse più pratico per i frequenti spostamenti, mi aveva spinto a spostarci verso nord, attraversando il Canada fino in Alaska. Era inverno inoltrato e il gelo oltre quelle lamiere era stato più sopportabile di quello fra noi due. Il sogno di una famiglia si era infranto contro il ghiaccio di quella terra, come un cristallo i cui frammenti trasparenti risultano indistinguibili, all’occhio pigro, tra tanto bianco. Il paradiso che ti avevo promesso aveva preso le fattezze del purgatorio: fosse stato l’inferno, avrei potuto almeno bruciarci dentro.
Te ne andasti mentre ero via. Non ne fui sorpreso. Ci vollero giorni che divennero mesi per ritrovarti. Non feci neanche il tentativo di parlarti. Ricordo solo quando ti rividi dopo tutto quel tempo di solitudine. Eri nel tuo solito vestito a fiori, trasparente alla luce del sole, così eccitante. Mi fu chiaro che t’amavo ancora, ma dovevo scegliere tra l’incertezza di riaverti e la certezza materiale di perderti per sempre.
Tutto accadde in maniera necessaria: il click della custodia che si apre, il fiato trattenuto, il cuore che rallenta, una pausa, concentrazione, il dito sul grilletto, il tuo cuore che sussulta, affanna, annaspa e poi smette di pompare...
Eppure, penso che lascerò la foto, ancora per un po’, al solito posto.
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